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Titolo Rubrica : SONETTO DEL FOSCOLO / LAVORO SU UNO DEI SUOI SONETTI


Pubblicata in data : 10/5/2005



Lavoro sul sonetto “A Zacinto” di Ugo Foscolo

Nel sonetto “A Zacinto” appaiono quattro motivi fondamentali della poesia foscoliana:
il canto dell’esule, che nostalgicamente e desolatamente si rivolge alla patria lontana, rievocandola in un’atmosfera di sacra e mitica visione; il motivo della bellezza civilizzatrice, nei versi in cui canta Venere che nacque dal mare e faceva “quelle isole feconde col suo primo sorriso”; il motivo della poesia che immortala e consola le sventure ( nel mito di Omero, che rende “bello di fama e di sventura” Ulisse, il quale, dopo tante peregrinazioni, riesce ad approdare nella sua Itaca ); il motivo desolato della sepoltura senza lacrime.

Quest’ultimo motivo è di fondamentale interesse, come abbiamo più volte visto a lezione, nello svolgimento dello spirito foscoliano, perché costituisce il suo problema dominante, quello della morte e del sepolcro come condizione indispensabile perla sopravvivenza nella memoria a cui tende la vita. Morire senza essere compianti significava, per Lui, scomparire per sempre nella materia e nel nulla. Il suo sentimento si ribella a questa tirannica forza della morte, e perciò questa conclusione desolata e sconfortata interrompe quasi bruscamente il tono idillico e mitico del sonetto, riportando la fantasia del poeta dal sereno paesaggio della Grecia e di Zacinto alla dura realtà della vita. Particolare valore esso rappresenta nello stile melodico del poeta, raggiungendo la più alta perfezione formale, la maggior unità e la più lirica sintesi tra fantasia e riflessione, prima ancora dei “Sepolcri”. L’antitesi tra il sogno e la realtà, fra la tragedia della vita e la serenità idillica del mito, sembra dal poeta dominata o, per lo meno, trasfigurata nella visione di un’isola sacra, in cui si racchiude il simbolo di una civiltà. Ma l’inizio e la fine del sonetto, con le loro note drammatiche e desolate, avvolgono come in un ritmo emotivo e concitato l’idillio del paesaggio centrale, al punto che i primi versi si potrebbero collegare anche in modo sintattico, oltre che logico, agli ultimi, perché ne continuano il ritmo angoscioso e doloroso:


Primi versi
“Né più mai toccherò le sacre sponde,
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia……..”

Ultimi versi
“Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.”

Ci sarebbe effettivamente una certa continuità logica tra questi versi, ma la desolazione degli ultimi assume vero e profondo valore poetico dell’evidente contrasto tonale e psicologico con la splendida e favolosa rievocazione del paesaggio sacro della patria e della Grecia.

Così tutto il ritmo del sonetto è “chiaroscurale”; infatti, al primo verso, che esprime, nell’irruenza della sua immediatezza, il dolore dell’esule, fa contrasto lirico la rievocazione felice di Zacinto, che si specchia “nell’onde del greco mar”. E la cara patria “man man dilegua per diventare espressione di un paesaggio più vasto, più mitico, ove la bellezza di Venere segna l’inizio della fecondità e della civiltà di tutto il mondo”. Poi il canto del mitico mondo scende di tono e si umanizza nella poesia di Omero e nell’esilio di Ulisse; l’idillio del paesaggio greco si ridimensiona nell’umanità e nella sventura del grande esule, consolato ed immortalato da Omero.

Infine il tono si abbassa ancora al “dramma germinale” del poeta e, al dolore dell’esilio, si aggiungono lo squallore e la desolazione della “illacrimata sepoltura” . L’ultimo verso non esprime soltanto dolore, ma anche un’inconsolata accettazione di un terribile fato; infatti, diceva un grande critico letterario : << Se all’uomo la vita fatalmente dolore, nell’eroe questi si converte in grandezza, in bellezza gioiosa e in conquista della patria. Dolore è il diverso esilio dell’Itaco; ma alla fine lo accoglie la patria >>.

Il contrasto fra i due esuli si deve, quindi, intendere anche come segno dell’ingiustizia dei “Numi” avversi al poeta della “inutilità del dolore e della grandezza”. Il dolore dell’esule per la terra materna è, in questo caso, l’espressione della “suprema delusione” del poeta, verso la sua vita, il cui il sacrificio fu vano e la grandezza inutile. Un dolore che non trova alla fine conforto né in vita né oltre la vita stessa, nello “squallore di una tomba illacrimata”.

Questo importante sonetto foscoliano, considerato il “grande capolavoro che precede i Sepolcri” , ci suggerisce subito un raffronto con le liriche del Leopardi, per esempio, dove una simile situazione psicologica sarebbe trascritta dal poeta nell’immediatezza del sentimento e di esplicite dichiarazioni-confessioni. In questo sonetto, noi lettori facciamo quasi fatica a scoprirne il dolore, dobbiamo conquistare da noi il pensiero intimo del poeta stesso, perché egli lo ha trasfigurato in un rapporto lirico, in una serenità idillica. “Pareva che cantasse un inno elegiaco alla sua patria, lontana e bella come un eliso, ed invece ridimensionava, in quell’elegia idillica, la storia della sua vita perseguitata da una sorte avversa ed ingiusta, in cui il dolore e la sventura non concedono grandezza e fama, neanche nella tomba”.

Per questo la critica moderna riconosce in questo sonetto il capolavoro foscoliano che precede i “Sepolcri”, in quanto la “tecnica del Foscolo tocca il vertice in una fusione mirabile di complessi elementi del suo mito con elementi complessi ritmici scavati e rifiniti con perfezione di profondità. Irrompe, con grande pathos, mai prima raggiunto, da un tumulto di dolore; ascende rasserenandosi in contemplazione religiosa della patria ideale; ripiomba nello squallore eroico di una realtà avversa, conchiudendo in questo moto tutti i punti essenziali della vita fantastica del poeta, tutti gli idoli ritmici del suo linguaggio”.



METRICA: Sonetto - Schema rime ABAB/ABAB/CDE/CED


“Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar, da cui vergine nacque


Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque


cantò fatali, ed il diverso esiglio,
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.


Tu non altro che il canto avrai del figlio
O materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.”






PARAFRASI, commenti e note:

1) “Né più” : né mai più (presente e futuro si fondono in una unica visione angosciosa) toccherò le sponde sacre dove in culla riposò il mio corpo ancor fanciulletto, o mia Zacinto (oggi Zante), che ti specchi nelle acque del Mar Ionio da cui nacque Venere.
- Da notare che il poeta chiama sacre le sponde di Zacinto, sia perché in essa si condensa la sacralità mitologica delle antiche dee Diana e Venere, sia perché il poeta ebbe un culto sacro per la patria dei suoi antenati. Il “movimento lirico” dell’inizio, pur improntato all’angoscia dell’esule, viene immediatamente interrotto da una pausa meditativa e contemplativa ( “ove il mio corpo”), determinando un “bellissimo chiaroscuro tonale tra l’elegia e l’idillio, che traveste in una luce trasognata di un paradiso perduto dell’isola nativa”. Intanto viene anche fissato uno dei motivi costanti della poesia di Foscolo e cioè la c.d. “angoscia dell’esilio della patria”.

5) “Venere”: continua qui il “tono idillico contemplativo” del paesaggio greco
“quel mare da cui vergine nacque Venere e rendeva feconde quelle isole greche col suo primo sorriso, per la qual cosa l’inclito verso di Omero che cantò le acque fatali, non tacque, non potè fare a meno di esaltare il limpido tuo cielo, la tua vegetazione”.

- Qui appare chiaro il secondo motivo foscoliano: la bellezza che feconda e rinnova la vita, nel mito di Venere intesa come fecondatrice di tutto il mondo. Dal mito della bellezza non poteva esser disgiunto quello della poesia che immortala la bellezza e la virtù.

9) “cantò” : infatti Omero non solo cantò le acque che il fato aveva decretato per Ulisse (fatali) ma anche (ed) l’esilio, le peregrinazioni in diverse terre straniere (diverso esiglio: esilio in diverse direzioni ), per cui Ulisse elevato ad emblema di virtù celebre e di sventura, riuscì a raggiungere e baciare la sua sassosa Itaca.

- Appare ben chiara la figura di Ulisse, immortalato dalla poesia di Omero, in onore delle sue sventure e delle sue famose virtù di sopportazione. Ulisse potè approdare nella sua Itaca “bello di fama e di sventura”, ma il poeta giammai, anche se non meno sventurato. Al mito classico dell’eroe peregrinante, che conclude felicemente le pene del suo esilio, si contrappone il mito romantico dell’eroe vinto, che non raggiungerà mai la “materna sua terra”.

12) “Tu non” : Tu, o materna mia terra, non avrai altro che la rievocazione mitica ed elegiaca del tuo figlio; a noi il destino prescrisse una sepoltura senza conforto pianto (illacrimata).

- Quest’ultimo motivo angoscioso è più appassionante foscoliano, perché la sepoltura senza lacrime, come abbiamo visto, equivaleva per lui, morire senza esser compianto e ricordato; quindi quella illacrimata era davvero piena di pianto.
“Questo lungo periodo poetico di undici versi che rende magicamente l’affollarsi delle immagini all’evocazione di Zacinto ( che si specchia nell’onda del greco mar…la quale…le tue…e Omero e infine Ulisse ). Il lungo giro del periodo conferisce a dare anche una idea favolosa degli erramenti di Ulisse”. In realtà, come abbiamo pure visto a lezione, quel lungo periodo, mentre evidenzia la sintassi ampia e solenne di un pensiero ricco e complesso con connotazioni particolari, testimonia “l’esuberanza del temperamento del poeta, che ti accavalla immagini su immagini, tenendo sempre quel filologico conduttore che dà unità di tono alla sua arte”. Questo sarà anche lo “stile unitario” che caratterizzerà fondamentalmente i “Sepolcri”. Il tema di “A Zacinto” sarà anche ripreso in tonalità più neoclassiche e musicali nelle “Grazie”.




Autore Guerino Nisticó

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